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libro diario sudamericanoLuca Belcastro
Diario sudamericano
Viaje entre ritos, música y naturaleza | Viaggio tra riti, musica e natura
LIBRO | en castellano - in italiano | Moretti&Vitali 2011

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foto luca belcastroPaolo Mottana

Prefazionealt

Sulle tracce del vento

Quello che ha fatto Luca Belcastro non assomiglia a niente. Semmai ha il profumo dei sogni, quei sogni che ci visitano a occhi aperti ma che, appunto, ben presto vengono abbandonati proprio in quanto sogni. Fragili utopìe che non reggono il bilancio avaro dei tornaconti e che trascolorano presto nell'oblìo, o nella rassegnazione.
Luca Belcastro un giorno se ne è andato. Andato via, da qui, dalla sua casa, dal suo mondo, dalle sue occupazioni, dalla terra popolata di rumore e di sfacelo cui non riusciva più a perdonare lo smarrimento del senso. Ma non se ne è andato, come i più, per raddrizzare il mondo, gonfio della presunzione che altri avessero bisogno di lui. Non è partito con i soldi di qualche organismo non governativo, con il propellente del buon samaritano e la fiducia che l'uomo occidentale può curare e riparare i torti che gli si addebitano giustificatamente. Non aveva da dare, in partenza. Non era l'uomo della cura e dell'aiuto, che presuppone qualcuno o qualcosa mancante. Al contrario. Non era neppure l'antropologo, o il giornalista, o il politico, osservatore indiscreto che fruga l'altro convinto di poterlo e saperlo fare. E infine non era neppure il turista, questo invasore solo apparentemente pacifico che carica il mondo a colpi di fotografie.
Luca Belcastro è solo partito, deluso dal deserto del proprio mondo, dalle sue leggi miserabili, da quella "competitività" che appare l'unica cifra che vi caratterizza ogni genere di transazione, e che è l'incarnazione del dominio incontrastato dell'astrazione-scambio, si è allontanato delle routine soffocanti e alienanti, alla ricerca di altro, in una deriva libera e sconosciuta. L'istinto, ma anche la tempra che manca ai più, il coraggio, l'hanno guidato verso i paesi del Sudamerica, verso un luogo possibile e impossibile, dove le leggi dell'affermazione personale e della vanità di una creazione sottomessa al circolo ambizione-potere potessero essere attenuate, o forse abolite. Dove "vincere l'inerzia" del "piccolo mondo grigio" europeo.
Questo "Diario sudamericano", secondo volume di scritture scaturite da un singolare modo di viaggiare, frammentato ma capace di tessere una tela di suggestioni folgoranti e profondamente interrelate, diventa una testimonianza preziosa intorno alla complessità della relazione tra la nostra civiltà e il mondo latinoamericano, ma anche tra l'anima dei luoghi e quella delle persone, tra l'arte, l'educazione, i sentimenti che abitano il creare e il pensare a contatto con l'estraneo e il perturbante.
Una scrittura quieta e riflessiva, percorsa da improvvisi slanci lirici, dettati dalle sorprese e dalle bellezze incontrate nel viaggiare, ma capace, senza spezzarsi, di congiungere descrizioni, incontri, interrogazioni personali, momenti introspettivi, approfondimenti culturali.
Il racconto esordisce con l'immagine di un viaggio, viaggio aereo, tra cielo e terra ma anche tra Europa e America. Zona di transizione, limen e soglia che si fa cifra di un atteggiamento persistente, della condizione umana dell'errante, esploratore ma anche esule, tra desiderio e nostalgìa, tra volontà determinata di proseguire e improvvise vertigini dettate dallo sradicamento. Questo secondo volume, più del primo, è attraversato da squarci dolorosi, legati anche alla recente scomparsa della madre dell'autore, da momenti introspettivi, da interrogativi scomodi, da auto esplorazioni non certo indulgenti e da un senso di oscillante smarrimento. Il che rende la prosa, così ricca di improvvise apparizioni - di natura selvaggia e mozzafiato, di incontri appassionanti e inattesi -, come venata costantemente da una nota riflessiva, sostenuta da un basso continuo capace di far risuonare i sentimenti, le memorie, i sogni e i segni di un viaggio fatto di luoghi e colori, dalla singolare e melanconica misura.
Il che non contrasta l'attenzione febbrile e documentata, il gusto del dettaglio, l'approfondimento analitico degli eventi, che ci consente di vivere quasi in presenza i fatti, le persone, e soprattutto gli scenari naturali, che in questo "Diario sudamericano" sembrano prendere il sopravvento, nella loro magnificenza inesauribile e ineludibile.
La bussola del viaggio - che trova probabilmente negli impegni, negli appuntamenti dei seminari, dei concerti, degli incontri legati alla pratica di Germina.Cciones... (l'iniziativa di scambio culturale e musicale che Belcastro ha creato in questi anni in molti paesi latinoamericani) il suo più ragionevole pretesto -, sembra però incarnarsi in qualcosa di più sfumato e impalpabile, nella figura del vento.
«Bisogna interpretare la forza del vento che invita a proseguire in una direzione precisa, inclinare il proprio corpo per controbilanciarla, chiudere gli occhi e non aver paura di volare là dove la propria percezione e la propria sensibilità indicano di andare».
Questo secondo resoconto di viaggio, che si dipana prevalentemente sul lato occidentale del Sudamerica, tra Cile, Argentina e Perù, in un altalenante andirivieni, sembra trovare il proprio perno di gravitazione paradossalmente nel vento. Una guida non solo simbolica, perché il vento è una presenza costante che «richiede preparazione, ma soprattutto la capacità di dedicargli il proprio tempo». Il "viandante" di questo periplo incostante rintraccia nel vento una presenza persistente e al tempo stesso dinamica, in grado di manifestare lo spirito di queste terre, di orientarlo fraternamente. Al tempo stesso affidarsi al vento è davvero il modo attraverso il quale Belcastro sembra voler soppiantare ogni logica eccessivamente calcolatoria, programmatica, per sostituirvi un ascolto sottile, un ascolto armonico, un tentativo di fare corpo, attraverso una sensibilità estrema, all'invisibile e al troppo visibile che promana da questi luoghi.
E così anche il lettore è trascinato dal vento da un punto all'altro della Cordigliera andina, da El Calafate a Bariloche, con puntate in luoghi sacri o in città affollate e invivibili, soffermandosi di volta in volta stupefatto dall'irruzione violenta e improvvisa della bellezza di una natura percepita spesso in pericolo ma comunque sempre sconvolgente, che sia l'immensa mole del ghiacciaio Perito Moreno o l'improvvisa epifanìa a lungo attesa in perfetta solitudine del Torres del Paine.
E tuttavia, in questa "cerca" di una natura straniera e illuminatrice, a soccorrere più di ogni altra il viaggiatore, appare la figura per certi versi opposta a quella del vento, quella degli alberi, i molti alberi di questo viaggio "alla fine del mondo".
«Come un novello Serse di hendeliana memoria all'ennesima potenza, gli alberi sono l'espressione della natura che più mi coinvolge e mi meraviglia in questo momento della mia vita. La loro forza è unita alla loro grazia e bellezza, emanano energia, le loro radici sono nutritive e la loro sedentarietà è assoluta». L'albero, in significativo contrappunto con la plastica mobilità del vento, sembra essere l'altro autentico compagno di viaggio di questo "osservatore" solitario. L'albero come simbolo di resistenza, di capacità di stare, di radicarsi definitivamente senza essere sospinto dalla coazione a spostarsi. L'albero come dimora e come crescita assicurata alla terra. E in effetti questo sembra essere uno dei motivi dell'ininterrotta meditazione di Belcastro sul senso del viaggiare, dell'incontrare, dello sperimentare: l'oscillare tra necessità di spingersi oltre, di cogliere le cose da un altro luogo, come per poterle ridimensionare, ma al tempo stesso anche la voglia di affondare, di mescolarsi e di stabilizzarsi. Come per esempio nelle feste, feste religiose, sincretiche e complesse, cui Belcastro ci conduce più volte, nelle quali viene sottolineato il potere del legame, dell'unione, della comunitarietà, qualcosa in via di estinzione nel nostro Occidente.
La contrapposizione tra l'elemento individualistico europeo e quello collettivistico dei popoli sudamericani torna più volte, sullo sfondo di una nostalgìa per qualcosa che c'era anche "da noi" ma che è scomparso. è qualcosa che si coglie bene anche nel rapporto che i sudamericani hanno con la musica, almeno inizialmente, almeno fino a che l'arroganza della tradizione europea non è intervenuta a scalzare questa originalità profonda. Un rapporto quasi naturale, che si trama fin da bambini nell'incontro con gli strumenti nativi, con la musica popolare e con le festività danzanti e sonore, ciascuna secondo la sua peculiare modulazione, fatte di percussioni o di fiati, cui tutti in questi luoghi sono esposti. Cosa ben diversa dalla forzatura didattica dell'occidente, con la disciplina che separa la musica dalla vita, con l'enfasi sulla complessità e sulla "frattura" piuttosto che sulla "continuità". Belcastro è tuttavia ben orientato a cercare un punto di equilibrio tra il suo "bisogno di selvaggio" e il rigore necessario, la ricerca accurata e difficile, nelle molte iniziative musicali da lui promosse da un luogo all'altro di questa grandissima area del mondo. Così come è sospinto dal proposito fondamentale di porre in comunicazione, di generare scambio, fecondazione reciproca lì dove a volte mettersi in contatto sembra impossibile.
Nella sua condizione duplice, nella terra di mezzo, nell'esposizione e apertura all'incontro, Belcastro avverte la necessità di implicazione e ne parla, senza nascondere le ritrosìe, i fastidi, le considerazioni anche critiche nei confronti di comportamenti che sente alieni, oppure semplicemente inaffidabili, contorti, soffocanti e irrimediabilmente lenti.
E tuttavia «Quando si decide di iniziare a 'ballare', quando si sente la necessità di esprimersi, di creare, di sentirsi vivi e di pensare, bisogna trovare la forza di continuare a farlo nonostante le difficoltà, cercando di controllare il proprio impulso naturale e il proprio carattere, per scoprire e rispettare sempre più il proprio ritmo naturale».
Tra intimazione alla contemplazione e improvvise immersioni dionisiache, il viaggio di Luca Belcastro è uno straordinario modo di conoscere, di riflettere, di restituire la complessità di un mondo di cui nulla viene tralasciato, dalle pratiche burocratiche impossibili agli spostamenti tumultuosi, dagli incontri bizzarri a quelli inquietanti e pericolosi, dalle cadute evocative agli incidenti bizzarri sulla strada, dalle annotazioni sui comportamenti a quelle politiche, a quelle filosofiche. Un diario ricco, in cui i momenti di introspezione, anche onirica, contribuiscono a immergere il lettore in un'esperienza plenaria, vissuta, interrogante.
Gli incontri con gli elementi, con gli animali, qui curiosamente sotto le vesti simboliche di un'aquila e di un toro ma anche più semplicemente in quella dei cani, alter ego sbandati e desiderosi di protagonismo delle ultime pagine del diario, sono tutti segni ricchi di possibili letture. Il viaggio è anche, come ogni vera esperienza, una lunga escursione simbolica, una psicostoria, un serrato confronto con l'anima. E alla fine il viandante ha gli "occhi spaventati e trasparenti" di chi si gioca fino in fondo, limpidamente, con le difficoltà interne ed esterne, in una cerca ambiziosa e necessaria, quella di trovare se stesso non nell'immobilità dello stilita ma albergando e percorrendo il mondo. Quella soprattutto di trovare il mondo, di mutarlo e di attingere alla sua formidabile energia, nell'esporvisi, nell'attrito tra il passato e il presente, tra il noto e l'ignoto, nell'anelito a un futuro difficile ma non impossibile.


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